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| Simone Santi saluta il Ministro del Congo Brazzaville |
("Match con l'Italia sui macchinari" Sole24Ore pag. 27, 18 giugno 2012)
Un accordo tra il governo etiope e quello cinese, per cui se ci sono investimenti cinesi in un certo settore (come il calzaturiero) le macchine che vengono utilizzate per queste fabbriche devono essere cinesi. E non è certo l'unico in Africa.«Ce lo ha spiegato un nostro associato che aveva un cliente guarda caso proprio cinese- spiega Mario Pucci di Assomac, l'associazione delle aziende che fabbricano macchinari per il calzaturiero - uno che aveva fatto investimenti in Africa e avrebbe voluto comprare macchinari italiani, ma la Cina aveva stipulato questa intesa con il Governo etiope e lui era costretto a usare macchine cinesi».
«Nell'Africa sub sahariana - dice Federico Pellegata, direttore di Acimit,l'associazione delle imprese che producono macchinari per il tessile - il modello è un po' quello che anche gli europei, italiani compresi, usavano più di vent'anni fa: i cinesi vanno, investono e in cambio impongono l'acquisto di loro macchinari o beni. Certo, hanno una potenza di fuoco enorme, a causa delle loro dimensioni e della liquidità a disposizione, che noi certo non avevamo. In ogni caso, al momento non sono veramente nostri concorrenti, perché i nostri macchinari sono di qualità molto più elevata e hanno un target di riferimento diverso al loro. Ma è anche vero che in prospettiva il problema si pone eccome. Bisogna però osservare che tra gli africani sta cominciando a registrarsi una certa insofferenza nei confronti dei cinesi». Insofferenza registrata da molti osservatori, anche perché i cinesi non creano lavoro, ma portano con sé la manodopera dalla Cina, che lavora a costi bassissimi. «Dalla mia esperienza in Etiopia, Angola, Zambia e Tanzania - dice Flavia Bellico, responsabile fmanziaria di Pert, gruppo italiano che fa equipaggiamenti e macchinari per la siderurgia adatti al mercato africano - i cinesi non si confrontano con la popolazione locale e non creano sviluppo. Certo, i loro prodotti costano meno, ma non sempre è un risparmio, perché quello che fanno - anche le infrastrutture - dura poco e si deteriora. Ma è anche vero che loro sanno fare sistema, agiscono a livello centrale mentre noi, spesso, siamo soli».
Conferma Stefano Corà, della Domenico Corà e figli, azienda che importa e distribuisce legnami, associata a Federlegno-arredo: «Siamo in Gabon da dieci anni, abbiamo una segheria e produciamo compensato. C'è una forte presenza europea e anche asiatica. Quella cinese in genere agisce a vari livelli, sia intergovernativi (per ottenere la concessione di foreste e di altre risorse) sia a livello più basso con la vendita a prezzi stracciati di prodotti sul mercato locale. Ma è vero che negli ultimi tempi si registra un arretramento, si comincia a sentire l'insofferenza degli africani».«Eppure - dice Simone Santi, CEO di Leonardo business consulting, società di consulenza presente in io Paesi africani- per le nostre imprese c'è spazio. I cinesi non possono essere un alibi per noi e del resto fanno il lavoro dirty and fast, quello che costa poco e deve esser fatto velocemente. Inoltre investono, cosa che gli europei e gli italiani non sempre vogliono fare. Ma oggi i Paesi africani come Ghana, Mozambico, Etiopia sanno riconoscere bene la qualità.
Dunque, ci sono oppoprtunità, ma bisogna fare sistema e i nostri imprenditori devono essere meno lenti, lì tutto si muove più velocemente di qui».
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