Monday, June 18, 2012

Imprese italiane in Africa - Mondo & Mercati Sole24Ore


 
Simone Santi saluta il Ministro del Congo Brazzaville
di Anna del Freo

("Match con l'Italia sui macchinari" Sole24Ore pag. 27, 18 giugno 2012)

Un accordo tra il governo etiope e quello cinese, per cui se ci sono investimenti cinesi in un certo settore (come il calzaturiero) le macchine che vengono utilizzate per queste fabbriche devono essere cinesi. E non è certo l'unico in Africa.«Ce lo ha spiegato un nostro associato che aveva un cliente guarda caso proprio cinese- spiega Mario Pucci di Assomac, l'associazione delle aziende che fabbricano macchinari per il calzaturiero - uno che aveva fatto investimenti in Africa e avrebbe voluto comprare macchinari italiani, ma la Cina aveva stipulato questa intesa con il Governo etiope e lui era costretto a usare macchine cinesi».
«Nell'Africa sub sahariana - dice Federico Pellegata, direttore di Acimit,l'associazione delle imprese che producono macchinari per il tessile - il modello è un po' quello che anche gli europei, italiani compresi, usavano più di vent'anni fa: i cinesi vanno, investono e in cambio impongono l'acquisto di loro macchinari o beni. Certo, hanno una potenza di fuoco enorme, a causa delle loro dimensioni e della liquidità a disposizione, che noi certo non avevamo. In ogni caso, al momento non sono veramente nostri concorrenti, perché i nostri macchinari sono di qualità molto più elevata e hanno un target di riferimento diverso al loro. Ma è anche vero che in prospettiva il problema si pone eccome. Bisogna però osservare che tra gli africani sta cominciando a registrarsi una certa insofferenza nei confronti dei cinesi». Insofferenza registrata da molti osservatori, anche perché i cinesi non creano lavoro, ma portano con sé la manodopera dalla Cina, che lavora a costi bassissimi. «Dalla mia esperienza in Etiopia, Angola, Zambia e Tanzania - dice Flavia Bellico, responsabile fmanziaria di Pert, gruppo italiano che fa equipaggiamenti e macchinari per la siderurgia adatti al mercato africano - i cinesi non si confrontano con la popolazione locale e non creano sviluppo. Certo, i loro prodotti costano meno, ma non sempre è un risparmio, perché quello che fanno - anche le infrastrutture - dura poco e si deteriora. Ma è anche vero che loro sanno fare sistema, agiscono a livello centrale mentre noi, spesso, siamo soli».
Conferma Stefano Corà, della Domenico Corà e figli, azienda che importa e distribuisce legnami, associata a Federlegno-arredo: «Siamo in Gabon da dieci anni, abbiamo una segheria e produciamo compensato. C'è una forte presenza europea e anche asiatica. Quella cinese in genere agisce a vari livelli, sia intergovernativi (per ottenere la concessione di foreste e di altre risorse) sia a livello più basso con la vendita a prezzi stracciati di prodotti sul mercato locale. Ma è vero che negli ultimi tempi si registra un arretramento, si comincia a sentire l'insofferenza degli africani».«Eppure - dice Simone Santi, CEO di Leonardo business consulting, società di consulenza presente in io Paesi africani- per le nostre imprese c'è spazio. I cinesi non possono essere un alibi per noi e del resto fanno il lavoro dirty and fast, quello che costa poco e deve esser fatto velocemente. Inoltre investono, cosa che gli europei e gli italiani non sempre vogliono fare. Ma oggi i Paesi africani come Ghana, Mozambico, Etiopia sanno riconoscere bene la qualità.
Dunque, ci sono oppoprtunità, ma bisogna fare sistema e i nostri imprenditori devono essere meno lenti, lì tutto si muove più velocemente di qui».

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